Sei qui: Gourmettoria L'ultimo nuovo grande spettacolo emiliano di Bottura : al Cavallino risplendono i nostri modelli migliori
un'idea di: Marco Salicini
La cucina tradizionale emiliana monta in sella a un’iconica Ferrari rosso fiammante. Si riaccende un rombo di motori vibrante, quello del rinascimento italiano. Il gran prix di Massimo Bottura ha sede dinanzi alla casa della Ferrari, lo ammiriamo con la liberazione di chi ha seguito una gara col fiato sospeso, le mani sudate e il groppone in gola ma ne è uscito vincitore, nel punto di più alto del podio, trascinato dal tifo e dalla gloria. E’ un dna da vincenti il nostro non dimentichiamolo.
E’ incomparabile l’apprensione e la dedizione che caratterizzano l’approccio analitico ed emotivo di Massimo Bottura quando decide di mettere piede e scaraventare il suo cosmo ideologico in un luogo. Lo chef tristellato più celebre al mondo non si sofferma mai ad impostare una linea di cucina o a designare lo stile di un menù, va oltre. Afferra la semantica più antropologica immagazzinandola nel suo stile, trasmesso con una semplicità sorprendentemente chiara e universale, dettata nel caso del Ristorante Cavallino, dal contesto e dalla matrice culturale che hanno circoscritto la sede del ristorante. C’è storia, fascino, bellezza, motivato ottimismo e radioso patriottismo nell’anima del Cavallino. Un intelletto raro quello di Bottura messo a disposizione di tutti, infallibile nel riesumare ed ammaliare i dettagli. Facciamo un passo indietro riappropriamoci del nostro passato, comprendiamo i nostri valori socio culturali ed eleviamoli sotto la luce di una nuova alba. Recuperiamo i motori più ruggenti e trionfali delle prime Ferrari, ripartiamo dalla sfoglia e dagli ingredienti più evocativi del nostro territorio, non c’è nulla che ci può impedire di tornare a essere i più forti, con il nostro stile. E’ una Ferrari che sfreccia e straccia tutti i record ad ogni lap, dal layout magnificamente classico e grintoso; alle spalle c’è una progettazione laboriosa, sono stati analizzati ingegnosamente i motori di un tempo da una scuderia che sa come trapassarli nella meccanica contemporanea, superando brillantemente i crash test e delineando una drivability supersonica per sviare fulgidamente i parametri più insidiosi della nuova era. Il pilota addomestica il percorso con una nonchalance struggente con il cinismo di un Niki Lauda e il sorriso festante di un Schumacher : è Riccardo Forapani, spalla di Bottura per 13 anni in Francescana; come i due intramontabili piloti, lui e la sua “vettura” sono una cosa sola, due anime che si fondono con unico scopo. Dietro a un creme caramel al parmigiano c’è un tecnicismo comparabile alla progettazione di una Ferrari – il risultato finale è ciò che piace a tutti, senza distinzioni. Lo si assapora con gusto ed emotività metafisica proprio come quando esultavamo davanti ai teleschermi ammirando il sorpasso decisivo della rossa, seduti sulle ginocchia di nostro nonno. Non viviamo questi momenti con nostalgia ma con l’enfasi e l’entusiasmo di un passato parallelo al presente, ripercorrendo le stesse emozioni con la cognizione di ciò che siamo oggi.
L’architetto India Mahdavi è stata un perno fondamentale nella materializzazione di ciò che John Elkann, Bottura ed Enzo Mattioli Ferrari avevano pre concepito : con sagacia e destrezza ha oltrepassato le griffe più pacchiane, industriali e invadenti, defluendo un’anima vivida all’interno di un ristorante da cento coperti ( suddiviso tra sala da pranzo, terrazzo, cortile esterno, privé, cucine con lab stellari & attrezzature hi tech) fondato sul rispetto, l’omaggio, l’accoglienza, il comfort e la gioiosità. E’ un attimo inciampare su cerchioni, manubri e modellini fuori luogo, l’esperienza al contrario, si traduce su comode sedute colloquiali disposte sopra un pavimento a scacchi che riproduce una tovaglia pulita appena stirata, i merletti nei tendaggi, il cavallino pixelato all’ingresso dei servizi, cimeli da museo – come i pezzi dei primi motori, le originali foto di repertorio, il caminetto di Enzo Ferrari e le tonalità – da un rosso ferrari quasi autoctono a un giallo che sprigiona la modenesità. All’apparenza la bella trattoria, alle spalle un background d’elite – Forapani è in cucina a riflettere i perfezionismi della francescana in termini di magistralità sui tempi e la poliedricità delle tecniche di cottura, folgorandoci per un sentitissimo attivismo manuale in prima persona – all’utilizzo dei jospers, per espandere ed irradiare al massimo dei contagiri, i sapori “della memoria” battezzati da una levità dionisiaca. In sala Luis Diaz ( miglior giovane maitre d’Italia nel 2016) e Silvia Campolucci a mostrare sentitamente un’attenzione, un’accoglienza e una dedizione ammalianti.
E se tutti i piatti della degustazione (65euro) sventolano gli archivi papillari con tale perizia e sontuosità è frutto di un sistema simmetrico e infrangibile di una brigata talmente affiatata da operare come il più metodico e repentino team di meccanici durante un pit stop ai box. Portate che brillano di luce propria, dall’erbazzone alle erbette che è rivisitato come un millefoglie tipo chips di crosta di Parmigiano croccante, rottamando quel sentore tortuosamente umido e ammuffito ridondatamente confutato dalla massa. La pulizia, il reset di molti piatti confermano l’input di una filosofia concentrata nello strofinare i palati da tutti quegli errori che hanno infettato l’essenza gustativa delle altrettante ricette assunte dalle nostre corde ma sconnesse da un’unità di massa scoordinata. Tale imprinting è motivato favolosamente dal carpaccio di lingua salmistrata che oblitera l’eccesso di umidità sciapa e dilavata, ne boccia la consistenza allappante : si appallottola con la lingua al palato, si assapora lentamente e si scioglie. La salsa verde viene prelevata da un ragù di lumache debortante con prezzemolo, aglio dolce e caviale per pistilli sull’acido e il minerale. Si cela una manodopera all’avanguardia nell’apparentemente semplice creme caramel al Parmigiano Reggiano, mutato in una frittatina al Parmigiano Reggiano 36 mesi con riduzione di cipolla e Aceto Balsamico Consorteria Spilimbergo per un atterraggio dalla Luna sulla terra, planando tra i flashback di una frittatina fredda alla cipolla di casa, remunerata da un abbraccio dolce-sapido emblematicamente emiliano. Le rosette cotte nel forno al legna traducono il viaggio della nonna sulla luna di cui Bottura parlava alla vigilia dell’apertura; la testura e la bontà della sfoglia prendono per la gola grazie all’ardore fendente del josper su cui si avvolgono prosciutto cotto (dal raro sciabordio aromatico), tosone e spuma di besciamella amorevolmente calde ad avvolgere. Da manuale il gnocco fritto, impressionante per la chiusura emolliente a cuscino quanto incontaminato da unto e secchezza, lieve e leggero come non mai, insaporito dalla qualità e dallo smalto grasso del prosciutto crudo di Ruliano 36mesi e pancetta.
Il tortellino è chiuso a mano dal lab del tortellante, ovviamente piccolo e conciliato liturgicamente sul cucchiaio, viene cotto prima del brodo di cappone e amalgamato in una crema di parmigiano onirica tanto si rivela lattiginosa e leggerissima. L’anguilla cotta alla brace ripiena di piccione, su cui si adagia la salsa al carpione e la formidabile lucidissima e croccante giardiniera scatena un hype paragonabile al pathos degli ultimi tre giri al traguardo con le due Ferrari in testa; il trapasso più fiammante tra lo studio delle cotture ancestrali che hanno fatto scuola e l’accortezza moderna nel monitorare la saporosità esuberante dei due alimenti; è un bengodi sensuale, etereo, puntigliosamente succulente; incrocio tra texture da mano aulica – presente – colossale in fase di cottura e a ripulire come citato, la curatissima giardiniera e una salsa alleggerita che sterza verso il futuro. Niente bassa temperatura nelle Just Ribs : costolette di mora romagnola marinate 48 ore, nappatura alla saba per un agrodolce orgogliosamente emiliano; carnalità e carnosità affinate dalla classe, superando nello stretto, disgressioni stucchevole nelle laccate all’americana.
Il Paciugo con mascarpone, meringa, gelato al caffè e cacao è una preview del carrello dei dolci baloccante presto in arrivo : sul piatto la meraviglia di sfidare ludicamente i propri peccati di gola ed ogni commensale potrà scegliere dal carrello come preferirà “paciugare” – è una simulazione delle goloserie senza un fremito di ciò che spensieratamente facevamo da piccoli dopo il pranzo della domenica, approfittando di quei secondi di distrazione dei nostri nonni incollati al teleschermo per i momenti finali del Gran Premio di cartello. Il Babà adotta la cittadinanza emiliana – panna montata e agrumi per smorzare il velo di beva racchiuso all'interno; fino alla fine la letizia e levità ritrovate in ogni portata del pasto mantengono una persistenza inflessibile, dolci ovviamente inclusi, a cui va fatto un inchino per la percezione della dolcezza stessa.
Di rottura anche il sorbetto : pesca gialla, frutti rossi, polvere di fragole, albicocca fermentata e crumble, freschezza e nettare fruttuoso in evidenza ben al di là dell'anonima ghiacciata. Col caffé invece l'originale e mitologica torta barozzi. Cantina come da pronostici, assimilata per schierare ai nastri di partenza le etichette più importanti confermando in lista, l’espressione enologica di qualche produttore meno blasonato ma alquanto rassicurante. Unico neo va dato, l’insonorizzazione della sala e non vorrei in questo caso aggiungere una metafora sull'accensione dei motori delle quattro ruote.
Si esce dal Cavallino travolti da una bellezza che sarebbe sciocco dare per scontata : il Cavallino è un palladio emiliano, all’altare la cucina emiliana e la Ferrari, un orgoglio nel mondo all’atto del risorgimento.
RISTORANTE CAVALLINO
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