Sei qui: Gourmettoria La grande scuola di cucina francese nel romantico incontro con i capisaldi bolognesi | Ristorante Grassilli
un'idea di: Marco Salicini
Il tempo si è fermato, luogo comune di una scontatezza lessicale disarmante , assume una connotazione mai così realista e cognitiva, come accade quando si varca l’ingresso di Grassilli.
Il tifone drammatico e spietato che nel giro di pochissimo tempo ha spazzolato via lo storico ingresso del Diana ed addirittura emigrato Il Pappagallo da Piazza della Mercanzia, ha lasciato sicuramente un vuoto diacronico pesante e malinconico, resettando riferimenti stoici che residenti, viandanti, turisti prendevano come orientamento per intere generazioni.
Conteggiando gli anni di storia (e di gloria) della ristorazione, ecco che il Ristorante Grassilli di via dal Luzzo va schierandosi proprio tra i locali più lungimiranti, permanenti e di fama, tra gli indirizzi gastronomici del capoluogo emiliano ed il fattore estremamente importante è che continua ad esprimersi con il fascino di sempre, l’identità impermeabile che parrebbe quasi eternamente al passo coi tempi, senza mostrare segni di cedimenti o di eclissarsi nella nostalgia.
Imponenti se non monumentali le fondamenta ereditate e mantenute da Francesco Grassilli, ex cantante lirico che allo scadere della Seconda Guerra Mondiale, riempiva il locale di musicisti e direttori d’orchestra, personaggi ed artisti che ancora oggi figurano sui quadri illuminati soffusamente da un incantevole salotto caldo e penetrante, autenticamente bélle epoque. L’atmosfera avvolge ancor più romanticismo se pensiamo che ci troviamo a pochi metri dall’inimitabile splendore di Piazza Santo Stefano, discostati su una viuzza laterale, custode della propria intimità.
In alto la sala, da sinistra il pane morbido e le streghe gustosamente untine e friabili, il vitello tonnato, la tagliatella al ragù e il passatello in brodo.
La genesi di una cucina e di un menù perennemente interconnesso alle origini però è merito di Jaques Durussel, svizzero di Vevey, chef personale di Liz Taylor, ulteriore espediente di questa vena artistica segnata nel destino del locale, che nel 1998 (dopo i diciotto anni passati all’interno della cucina) conferì al calore dell’ambiente, il medesimo impatto sui piatti, intuendo un connubio compenetrante, sincronico, tra alcune sfaccettature ed alchimie della cucina francese e di quella bolognese. Concezione repentinamente vincente, tant’è che in poco tempo la collezione dei riquadri d’opera si ampliò con celebrità internazionali e locali (li trovate elencati tra le pagine di album dei ricordi), ottenendo il prestigioso macarons della Michelin e che proprio ai giorni nostri, confutando l’eternità e la prestanza di certi dettami stilistici delle ricette figlie degli anni ’80, si ha una risposta.
Durussel venne poi in punta di piedi, proprio come quel menù (e l’attuale) predisposto semplicemente su una divisione orientata tra cucina bolognese, internazionale e i fuori carta (immancabili e oserei dire imperdibili), piuttosto che per gonfiare o imporre in prima linea, le grandi capacità del cuoco.
Demoscopicamente il successo di un ristorante da ininterrotto sold out sia a pranzo che cena, si riflette in quest’identità che trasmette : chi come me passerebbe intere giornate accomodato tra i sofà di un bistrot parigino, chi è stato dipendente di una scuola di cucina magistrale e chi brama intensità all’interno dei piatti viene rapito dalla sensualità multisensoriale di Grassilli.
Seppur non sia più onnipresente non è nemmeno impossibile incrociare Jacques tra gli ambienti di via dal Luzzo, il testimone già da tempo è passato tra le mani del figlio Jean David che con arbitrio e capacità continua a tramandare lucidamente questa impronta.
Continuano a risplendere, in autunno ed inverno soprattutto, capolavori come la soupe d’oignon, il rognone di vitello alle erbe, i risotti mantecati intensamente, la quiche lorraine, le terrines d’anatra e di coniglio, l’agnello, il filetto alla rossini, la boeuf a la bourguignonne, les escargot attraversati e ripassati da quegli aromi, quei fondi, quelle componenti burrose e vellutate che ne identificano il marchio di fabbrica. Timbro ad esempio emblematico nelle cotolette, "la bolognese" meritevole della fama che la precede, significativa nella sua espressione proprio di quel mélange oltralpe e petroniano di cui introducevamo; un blend avvolgente (più che una glassa), lipidico, irrorato in cui brodo e parmigiano si coagulano tecnicamente a la francaise, completata da una demi-glace bruna formidabile. Col medesimo piglio tocca alla petroniana in cui è la mortadella che sostituisce il prosciutto nella coltre, la parmigiana per assaporare un flavour vegetariano che è un ossimoro per la medesima saporosità ed una grande viennese, sottile e croccante, la si contraddistingue per una frittura che ne esalta le percezioni del rub utilizzato col pangrattato.
La viennese ed in seguito il servizio del filetto alla wellington. In basso il Mont Blac, la Tarte Tatin ed il fascino irriducibile degli ambienti.
Intriganti e rilevanti sono proprio gli accorgimenti collegabili alla personalità dello chef; nel vitello tonnato la vera protagonista è proprio la salsa adagiata, mostarda-maionese-capperi e bisque di gamberi creando un equo bilanciamento tra la voluttuosità della maionese, i profumi ed il leggero salmastro della bisque a frangenti di lieta acidità. Nel ragù ben avviluppato su una tagliatella spessa, ruvidissima e cotta a menadito, conquista la consistenza e colpisce (probabilmente in alcuni casi straniando certi palati) quell’inusuale valvola speziata, aromatica, che pulisce il palato di un sentore balsamico. Il brodo poi, assolutista nella deliziosa tazzina generosamente pregna di passatelli, è di gallina miscelato con sedano, carota, cipolla, aggiunta di croste di parmigiano e ritagli di faraona una tantum : è un signor brodo ricco di eleganza e di sapori, confortante e felicemente digeribile.
Il time lapse negli anni ’80 con l’esclusivo filetto alla Wellington (previa ordinazione), un banchetto decisamente riconducibile alle cucine classiche dei grandi alberghi. Irrorato da una sauce beurre con tuorlo d’uovo, burro chiarificato, dragoncello, sale, pepe, vino bianco e aceto di vino bianco, stratificato dalla crosta di pasta sfoglia ovviamente laccata coi tuorli, che ricuce una beef ,nel suo interno, inopinabilmente saignant. E’ un bel ripasso, estremamente glorificante e decisivo, nell’albo culinario saliente della cuisine ma anche dei traguardi del Grassilli stesso. Ci si appropria o riappropria di un carico lipidico configurato da burro, umori, salse, spezie, pepe infrangibile se non si compie abominio destrutturando il boccone; pienezza e complessità d’antan. Ma ogni volta da Grassilli, i dessert recitano un ruolo quasi indipendente e indimenticabile che da soli, valgono il viaggio. Un Mont Blanc invincibile in cui la correlazione tra gli ingredienti è il vero colpo da maestro; come ad esempio acclimatare il finto spaghetto di farina di castagne con la dolcezza della crumble di meringa, la freschezza e l’allietante acidità della panna e subito a seguire una tarte tatin formidabile per la cottura tutt’altro che elementare esternata dalla mela, dolce e caramellata, catechizzata dalla panna acida.
In sala è sempre più bravo Luca Fantuzzi, padrone dei tempi e del self control : oltre all’ottima assistenza sua e del personale aggiorna una carta dei vini sempre più vocata al territorio ed ai naturali, assimilati con criterio. Una carta che ama “essere sostenibile” aggiornarsi e non creare cumuli. Il conto, allineato all’attuale scontrino medio del centro, non fa una piega per ciò che emana questo storico locale.
RISTORANTE GRASSILLI
Via dal Luzzo 3, Bologna
051222961
www.ristorantegrassilli.weebly.com