Non bisogna dimenticarsi di parlare dei locali migliori situati nei grandi centri storici. Ebbene a due anni abbondanti dalla mia ultima visita, al
Sentaku Ramen Bar, una delle aperture più innovative e centrate nell’ultima decade a Bologna, il rientro si è rivelato entusiasmante.
Nel post pandemia, l’izakaya di via delle Lame è passato esclusivamente nelle mani di Claudio Alessandro Musiani, uno dei founders, ora socio unico e c’è stato un passaggio di testimone alle redini della cucina. Tolte le dinamiche societarie, poco nulla è cambiato, anzi : l’hype si è mantenuto il medesimo, attirando un target trasversale e appassionato di clienti, che soprattutto nel weekend compongono lunghe code per aggiudicarsi uno slot, gettonatissimo, al banco di Sentaku.
Il format è rimasto impermeabile : banchi e sgabelli in legno posti dinanzi e alle spalle della cucina a vista in cui gli chef preparano e definiscono le cotture, non si accettano prenotazioni e si ordina segnando il proprio ordine con la matita dal menù – formato cartoncino, riposto assieme alle bacchette.
Hokkaido o Fukuoka? No, siamo a Bologna. Immedesimati e trasportati in un architrave maestosamente metropolitano, autenticamente riconnesso ai tratti esperienziali etnico nipponici in tutte le modalità più consone. Un modello di restauro leggiadro, estraniato dall’esterno, intimo, interconnesso nel legame cognitivo-gustativo ad una full immersion folgorante.
La ritmica di Sentaku oramai è una catena di montaggio che ha mantenuto rigoroso e prominente il fattore emozionale : si può sostare anche da soli, al banco, lasciandosi persuadere, riappacificandosi con il mondo e con se stessi in un infusione con la propria ciotola di Ramen.
Il servizio, gentile ed estremamente organizzato, smista con dimestichezza tutte le comande, il viavai è automatico, il tempo giusto di un pasto che per l’acume, rimodella il fattore temporale, lasciando il segno elasticizzando misticamente l’effettivo lasso temporale. La luminosità, i materiali, la playlist, l’entertainment nei servizi con lo schermo interconnesso alle strade di Tokyo ricreano accademicamente quel jet set che dagli anni ’80 ha espanso il ramen bar in tutto il mondo.
Stupefacente, il tocco dello chef Antonio Marangi, che dopo un background consolidato tra gli indirizzi più svariati della ristorazione local, ha trovato la sua vocazione definitiva con uno stile di cucina stimolante, per la valvola di fantasia che può essere applicata alle nuances sui topping, sfumature e nuovi accorgimenti da accorpare ai brodi o alle spezie. Le basi di ogni ramen vengono composte da una tare (insaporitore), brodo (tonkotsu di maiale, pollo o vegetale), noodles e guarnizioni architettate da materie prime veggie, coppone di maiale, alghe marine secche, kamaboko – “Naruto”.
Il mashup avviene tra un assortimento materico originariamente orientale plus vegetali e carni semibrade allevate a terra del nostro territorio collinare; un amalgama fibrillante eseguita con estro prodigioso comparato ad una minuziosità, propedeutica, rilevata al dettaglio. Dalla cottura perfetta dei noodles (cotti-raffreddati e rinsaporiti), alla densità strepitosa del brodo (sono dieci ore di cottura nei pentoloni hi tech), il sentore piccante a regola d’arte ed un equità ineccepibile nella dissolvenza compenetrante di tutti gli altri ingredienti, assortiti in formule e ricette che oserei dire “definitive”. Fermentazioni, marinature e tempi del brodo che narcotizzano il palato, continuamente sollecitato da sapori mai in sottrazione : calcati, fervidi, umamici, lattiginosi, avvolgenti, sapidi, deflagranti. Talmente appagante e risolutivo, quanto ricco di proprietà benefiche e nutritive, che scaldano e rinfrancano mente-palato-intestino in un blend corroborante, ritemprante.
Sei le varianti in menù, tra cui le nostre scelte : Tori Paitan, brodo denso di pollo piccante, base soia, noodles, chashu di pollo, olio al niboshi, macinato jp, uovo marinato, cippollotto, bamboo marinato, olio piccante, alga nori; Shi-s-o con brodo di pollo e maiale base sale, noodles, chashua di pollo e maiale, uovo marinato, pesto allo shiso, porro, alga nori.
La fattura degli snack non può rimanere in disparte e non gioca assolutamente in seconda fascia rispetto ai main course : se magari gli effetti speciali legati alla manodopera metrico-stilistica che fanno baloccare il palato di umori inebrianti rimangono strutturalmente annessi ai brodi, la propulsione – come una tormenta – non placa l’appetito, invogliando a fagocitarsi l’interno menù. Come i fried gyoza che da Sentaku rappresentano la genesi, ricordando il prototipo in collegio di spagna, accalappiando una frittura chirurgica che attrita i bordi mantenendo integro e saporoso il ripieno di maiale e cavolo, rivangato dall’umami di soia-aceto-cippollotto. Lascia quasi increduli, per la sfrontata gustosità, il Korokke : pasciuta crocchetta di patate speziata con salsa otafuku, paradossale se pensiamo ad una ricetta vegan. Altresì crea indipendenza il Karaage, bocconcini di pollo prima marinato e poi fritto da intingere in una salsa tartara giapponese hm che ne accentua ancor di più la succulenza e la succosità.
A completare la series di piattini, i bao farciti col medesimo calibro di ingredienti e l’elettrizzante proposta beverage, con birre e soprattutto saké in oltre 8 varianti.
Se pensiamo poi allo scontrino medio, che difficilmente può superare i 20,00euro ci rendiamo conto a maggior ragione di quanto sia unico questo locale, capace di ipnotizzarci, inibendo un frangente gastro culturale visionario, mantenendo peraltro alta la cura e l’espressione unica e memorabile di tutto il menù, ad un rapporto qualità prezzo superlativo.